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Lo scarso sostegno economico alla ricerca, sono i motivi dell’'emigrazione di tante intelligenti risorse, in questo i numeri sono illuminanti: nel 2000 la percentuale destinata alla ricerca era pari all’1,1% e nel 2014, quattordici anni dopo, il progresso è assai poco significativo.
La cifra oscilla infatti tra l’1,1% e l’1,3%, suddiviso in 0,6% da fondi pubblici e 0,5% da privati. In Italia manca anche una struttura centrale in grado di seguire il destino dei finanziamenti e questa assenza impedisce che i fondi vengano raccolti e distribuiti secondo criteri meritocratici. In altri termini, i soldi si perdono in mille progetti senza essere convogliati nei centri «incubatori di idee», parchi scientifici e campus di ricerca, che stanno invece fiorendo nei paesi più avanzati.
Di fronte a questa situazione che relega il nostro paese nel fanalino di coda della ricerca scientifica c’è chi, sciaguratamente, propone una soluzione “all’'americana”.
Secondo la “vulgata corrente”, infatti, la ricerca scientifica negli Stati Uniti avrebbe raggiunto livelli di eccellenza grazie soprattutto all'’esistenza di centri di ricerca e di Università private e grazie ai finanziamenti di privati alla ricerca scientifica. Si pensa che più la carriera di un ricercatore è aleatoria, più si pensa che, a parità di costo, egli produrrà dal punto di vista scientifico, questa strampalata idea minacciano di minare seriamente le basi culturali del nostro sistema universitario.
La realtà italiana invece è data dal riconoscimento che viene dato alla bravura del ricercatore: quella famosa “meritocrazia”, ancora oggi scandalosamente assente nel nostro paese e che continua a condannare i nostri migliori “cervelli”, che non vogliono rassegnarsi ad ammuffire per anni in qualche istituto ad aspettare un sempre più improbabile riconoscimento, all’emigrazione.
Eppure, ancora oggi, con un sacrificio individuale che ha dell’eroico, i nostri ricercatori raggiungono buoni risultati; infatti, nel confronto in merito alle pubblicazioni, per 1000 ricercatori se ne producono in Italia 346, in Europa 269, in USA 204, in Giappone104. Ma questa elevata “produttività ”, da ricercare forse nell’arte tutta italiana di arrangiarsi, non riesce certo a rimediare alla crisi che, da decenni, marca la nostra ricerca.
Basti pensare che, dopo il lontano 1906 e Camillo Golgi, per un intero secolo nessun italiano abbia mai vinto un premio Nobel in medicina per un lavoro svolto in Italia: Rita Levi Montalcini, Salvatore Luria, Renato Dulbecco e Mario Capecchi hanno, infatti, vinto l'’onorificenza andando a lavorare negli Stati Uniti.
Viene spontaneo a questo punto elencare alcune ovvie soluzioni per invertire il rovinoso trend della ricerca scientifica in Italia suggerendo, ad esempio, la stabilizzazione dei ricercatori precari (circa 30.000 secondo le più attendibili stime) attraverso forme di reclutamento che verifichino valore e merito o l’introduzione di sostanziosi sgravi fiscali o l’introduzione dell’8 per mille da destinare alla ricerca…. Un'’altra questione che marca pesantemente in Italia la “fuga dei cervelli” è l'’inesistenza della cosiddetta “meritocrazia” un termine diventato, oggi in Italia, un mantra da salmodiare.
Se su Google si selezionano i termini “ricerca scientifica meritocrazia” si ottengono ben 16.300 risultati e non c'’è ormai proposta di legge sul “riordino” della ricerca, relazione, intervista a qualche scienziato italiano confinato in università all'’estero… che, retoricamente, non invochi un sistema di selezione e di carriera che non si basi più sull’appartenenza a qualche clan accademico, familiare o di partito.
E le “soluzioni” per raggiungere questo obbiettivo si sprecano.